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XXXL*

A: d.spitzer@istitutoannisereni.it

Oggetto: XXXL

Gentile dottor Spitzer,
buonasera.
Ho letto e riletto la sua precedente mail, ma è inutile: la sua risposta non mi convince. Le avevo chiesto di intervenire, insieme allo staff della residenza sanitaria, in modo da correggere il comportamento di mia madre che mangia sempre di più e cammina sempre di meno. Lei è convinto che una persona anziana, destinata a passare il resto della propria esistenza in una struttura sanitaria, debba essere lasciata libera di dire no a ciò che vive come un’imposizione perché, dovendo già affrontare le fatiche della vecchiaia, che almeno abbia la libertà di scegliere, anche se questo comporta dei rischi per la salute. Ma come posso darle ragione, se penso che mia madre, pur potendo camminare, si rifiuta di muovere i piedi e, pur potendo rinunciare a un pasto abbondante, si riempie la pancia di ogni cibo disponibile? Mia madre, dottore, non ha perso le testa, eppure non fa la cosa giusta, si rifiuta; se il fisioterapista insiste a farle fare una passeggiata in cortile mia madre si irrigidisce, se le si nega il bis di pasta comincia a piangere. E allora voi medici che fate? Lasciate che sia lei ad imporsi? Non dovrebbe essere di vostra competenza il persuadere una persona anziana a fare ciò di cui ha bisogno? Sostenete che sia meglio farle vivere questo poco tempo che rimane come piace a lei, anche se fa male, perché forzare la sua volontà potrebbe farle ancora più male.
Questa sua filosofia è lineare, dottore, non fa nessuna piega per il semplice fatto che resta in superficie, non tiene conto del volume della nostra storia, di mia madre e mio. Io, sa, ho sopportato l’impero materno fin da piccola. Cosa mangiavo, come mi vestivo, dove studiavo, di chi mi innamoravo. Era lei a decidere, mi manipolava con lacrime, musi lunghi, silenzi intollerabili e alla fine io ho continuato fino all’età di trent’anni a scegliere quello che sceglieva lei. Ma lei non ha mai ascoltato me, non ha mai fatto quello che chiedevo io. Ha sempre fatto di testa propria. Ha fatto molti sbagli, non lo ha mai ammesso. Si rimpinzava di formaggio e patatine, passava ore a dormire, sempre annoiata, lamentosa, non ha mai voluto fare un viaggio con mio padre né un giro al parco con me. Quando mio padre è morto, ha iniziato anche ad abusare di benzodiazepine per la notte e di benzedrine per il giorno, di lassativi, digestivi, di antinfiammatori e antidolorifici. Ha subìto molti ricoveri e secondo lei, dottore, chi correva da Bologna per andare all’ospedale di Napoli? Chi si addossava il peso della paura ogni volta che c’era un’emergenza? Quando mia madre usciva dall’ospedale, i medici le raccomandavano di smettere di prendere medicinali velenosi, ogni volta lei diceva sì, va bene. E poi lo rifaceva. Anche quando le misi di fianco una badante la cosa non funzionò, mia madre era stata capace di sottrarsi al suo controllo. La badante mi riferiva al telefono di una vita regolare, fatta di tisane rilassanti e di pasti a base di minestrine e verdure. Ma, quando andavo a trovare mamma, la trovavo ingrassata: un metro e sessanta di altezza per 88 chili di peso. Scoprii che i medicinali glieli procurava la sua amica farmacista e il custode le portava torte e pizzette ogni pomeriggio. Quando arrivò l’infarto mi convinsi a portarla qui a Bologna, nella vostra residenza. Mamma ed io saremmo state vicine. E devo dire che il primo anno filò tutto liscio; faceva la ginnastica, passeggiava per i corridoi, scambiava qualche parola con le altre ospiti, ascoltava la radio.
Poi la pandemia ha chiuso i cancelli e l’isolamento ha guastato l’equilibrio, il letto è diventato la cuccia di mia madre per ventiquattr’ore. Inoltre, da un po’ di tempo, si rifiuta di partecipare agli incontri organizzati nella sala comune per l’ascolto della musica, non frequenta più il gruppo del cruciverba; insomma l’apatia ha ripreso il dominio della sua volontà. Nell’ultimo mese il corpo di mamma si è allargato ancora al punto che, quando aspetto di incontrarla negli spazi riservati ai colloqui e la vedo arrivare da lontano, riconosco il colore del suo maglione e ciò che mi pare di vedere è una mongolfiera in carrozzina. Vorrei sgridarla, vorrei dirle che non va bene, che deve darsi una regolata ma, quando si avvicina, lei mi accarezza la mano, sorride e mi dice ciao amore. Così tutta la rabbia evapora. Ma poi ritorna, non riesco a digerirla questa rabbia e allora mi rivolgo di nuovo a lei, dottore. Perché ieri, per l’ennesima volta, l’operatrice mi ha chiesto di andare a comprare altri vestiti, quelli che mia madre indossa le vanno stretti. Vestiti ancora più larghi? Sono andata a cercare la taglia massima, la XXXL.
Sono sbalordita. Io faccio dei sacrifici per far soggiornare mia madre in una struttura qualificata e devo assistere impotente al suo decadimento fisico, senza che nessuno di voi faccia qualcosa per farla reagire? Il direttore sanitario a cui mi sono rivolta dice che è lei, dottore, il responsabile quindi eccomi a scriverle di nuovo.
Caro dottore, può immaginare cosa si provi stando nella mia condizione? Mi madre rischia continuamente di andare a finire in ospedale per delle cattive abitudini che si potrebbero correggere. Ma lei mi dice che non si può farle pressione. Quindi mia madre è libera di scegliere, ma io non sono libera di disinteressarmi di lei. Perché la amo. Perciò pago le conseguenze del suo comportamento. Mia madre fa quello che le pare e io non posso.


Adesso sembrerà che io sia una figlia egoista, cattiva, che non ha capito che a sua madre è rimasto solo il cibo a consolare le sue pene, che non ha capito che l’amore significa lasciare andare. Ma io dico che amare significa anche proteggere e mia madre va protetta, il cibo non è la sua consolazione, ma il suo veleno; lei ingoia per compulsione, non per piacere. Solo una volta mi è successo di assistere a una scena di amore con il cibo come protagonista.
Era il 19 marzo, la festa del papà, da celebrare rigorosamente con le zeppole. Alle undici di sera ritornai a casa dopo un weekend a Sorrento con gli amici. Aprii la porta aspettandomi il buio, invece no. Un fascio di luce color ghiaccio si proiettava sul pavimento. Seguii le tracce, era il riflesso della lampada al neon in cucina. I miei dovevano avere dimenticato di spegnere l’interruttore. La porta a vetro era socchiusa, intravedevo delle ombre. Nessun rumore. Entrai con delicatezza e li trovai. Entrambi in pigiama bianco come le loro teste, erano distratti. Papà stava seduto con i gomiti appoggiati al tavolo e mamma in piedi affianco a lui, stava aprendo una confezione di plastica trasparente – Ciao, non dormite ancora? – Si voltarono di soprassalto, irrigiditi. Poi papà accennò un sorriso – Eccoti, finalmente. Ti abbiamo aspettata tutta la sera per festeggiare con noi, ma siccome non arrivavi … – Sollevò il coperchio della scatola, dentro stavano addossate due enormi zeppole, sopra una montagna di crema e in cima l’immancabile amarena. Papà si controllò il largo tovagliolo appeso al collo, strinse gli occhi, le fossette intorno alla bocca si fecero profonde – Dai, siediti qui con noi – indicò la sedia vuota di fronte a lui. – Questa è per te – e tirò fuori dalla scatola la pasta che a stento stava dentro il palmo della sua mano; la sollevò adagio, come una statua di cristallo. A tutto papà aveva imparato a rinunciare, ma nessun problema di colesterolo, di pressione e di glicemia lo arrestavano davanti alla zeppola – Avanti, prendila – ribadì mamma – Ne abbiamo due, una per te e una che ci dividiamo noi, sai alla nostra età … – spiegò affondando il coltello nella pancia della zeppola che si aprì in due parti. Mentre i loro sguardi stavano rivolti verso di me, io invece ero catturata dalla forza del neon: quella luce spietata non tralasciava neppure una delle macchie brune, delle dermatiti, delle cicatrici che affliggevano la pelle dei miei genitori. Mi fece impressione vederli così: mamma e papà, inermi, erano diventati due bambini con la pelle consumata –. Grazie per avermi aspettata, ma ho cenato da poco, sono sazia – dissi. Rimasero in silenzio, senza insistere. Diedi un bacio sulla fronte di mamma e poi uno sulla fronte di papà – Vado a letto, buonanotte – Prima di socchiudere la porta, li spiai. Senza dire una parola mamma aveva già afferrato la zeppola rimasta nella scatola, papà teneva ancora in mano quell’altra. Lei era rimasta in piedi, dritta come un soldato, lui fissava il pasticcino con espressione composta. Poi si lanciarono uno sguardo d’intesa e dopo un attimo affondarono i denti nella pasta morbida, bocconi grossi che gonfiavano le guance, crema sul naso …
Conservo con cura questo quadro mentale, per la prima volta ho visto mia madre mangiare per amore, legata al piacere di dividere con suo marito una trasgressione di coppia; il tempo li ha sfiancati senza mai riuscire e separarli.
Ma adesso tutto è cambiato. Mio padre è morto dieci anni fa, mia madre si è appassita, nessuna luce la ravviva. Sfibrata dalle patologie, ormai abita nella vostra residenza dove l’aria è ferma, carrozzine e pannoloni, flebo e lamenti riempiono gli spazi. Lo so, lo so, non avevo alternativa. Ho ingoiato tonnellate di sensi di colpa prima di accettare l’idea del trasloco: mamma dalla sua casa di Napoli è atterrata a Bologna, in una residenza per anziani. Poterla incontrare ogni giorno, vederla serena ha alleggerito la fatica della scelta. Poi però è arrivata la pandemia che ha triplicato lo spessore della distanza. Per un anno non l’ho vista se non su di uno schermo. Adesso che posso incontrarla, devo prendere appuntamento per parlarle mezz’ora alla settimana, le regole sono come quelle di un carcere, e le devo rispettare anche io. Nessuna preferenza neppure per me che da voi ho lavorato per dieci anni, che gli anziani li ho curati con dedizione e passione. Mamma è diventata ospite di Anni sereni perché così io e lei potessimo stare più tempo insieme, stare sotto lo stesso tetto per una parte della giornata potevo controllare che tutto funzionasse.
Ma due anni fa ho dovuto trasferirmi in una nuova residenza che assumeva personale infermieristico; ho dovuto, e non perché fossi stanca di viaggiare ogni mattina per arrivare sul posto di lavoro. La verità tu la sai bene, caro dottore. Posso usare la seconda persona singolare? Posso chiamarti David? Tanto abbiamo familiarizzato abbastanza. Tu avevi capito che ero debole, non ero riuscita ad accettare di stare al tuo fianco senza poterti più abbracciare, sentire i tuoi occhi su di me, senza più intesa tra noi, senza far parlare la passione che ha reso irrefrenabile la voglia di stare insieme. Ho capito, sai, che quel fuoco andava spento, che le fiamme ci avrebbero consumato; è stata un’ondata più letale di un virus quell’attrazione tra noi, che non ha fatto neanche in tempo a diventare una storia.
Hai deciso di fermarti e ti ho assecondato. Ho sorriso, fingendo. Ma il maremoto si agitava e mi stravolgeva. Recitare la parte dell’infermiera che si comporta da protocollo non mi veniva bene quando ero intorno a te, proprio non ci riuscivo. Ho dovuto andarmene, rinunciando anche a vedere mia madre ogni giorno. Ho lasciato la residenza perché mi asfissiava quella prigione di finzione in cui ho dovuto entrare per mettere fine a quel sentimento che dentro di me non finisce. Neppure adesso.
E allora, se non posso avere te, voglio mia madre. La voglio viva il più a lungo possibile.
Ti chiedo di trovare una soluzione al problema: mia madre non può più rimanere ferma a vegetare e a lievitare, si aggraverebbe in un paio di mesi. Lo sappiamo. Bisogna attivare tutto lo staff, gli specialisti, gli operatori, lo psicologo per condurre mia madre sulla retta via. Coinvolgetemi, sono disponibile per ogni chiarimento, per ogni approfondimento, mamma ha i suoi punti deboli, non è inespugnabile. Per favore, non ripetere che è stato fatto tutto il possibile, non ci casco. Invece prendiamo accordi, facciamo un patto. Ascoltami. Ti ricordi quel giovedì di fine agosto? Avevamo perso la testa, ci siamo allontanati nella pausa pranzo, solo che per me il turno era finito, per te no. In un motel ci siamo tolti i vestiti, ci siamo persi nel calore dei nostri corpi, tu mi sei rimasto addosso per un tempo indefinibile e quando ti hanno chiamato al telefono non hai risposto. Ricordi? L’urgenza della stanza 78, l’ictus della signora Delfi? Chiedevano il tuo intervento. Quando hai richiamato era troppo tardi, la signora non ce l’ha fatta, è morta in ambulanza. Ci hanno creduto tutti alla tua frottola, che dopo pranzo eri inciampato su di un sasso lungo il viale, non avevi potuto rispondere al telefono Per essere più credibile, eri rientrato zoppicando. Tutto fu risolto. Però il rimorso è stato inevitabile: se la tua presenza avesse salvato la vita della paziente? Se fossi rientrato in tempo, si sarebbe ridotto il danno? Te la sei fatta questa domanda, ce la siamo fatta. Non potendo trovare risposta, hai deciso di interrompere il nostro legame. Non c’è stato bisogno di spiegazioni, David, io ho capito che avevi bisogno di punirti, di punirmi. Ma mi ha fatto male. Non posso lasciare che tu me ne faccia ancora. Non puoi trascurare mia madre, non ti conviene. Sai che potrei farti del male anche io? Potrei raccontare alla figlia della signora Delfi la mia versione dei fatti. Potrei riferire nei dettagli che l’incidente su cui hai mentito, avveniva nel Motel Star di via Treccani 5 a Bologna e che insieme a te c’ero io, al tempo infermiera della residenza Anni sereni, la quale, avendo terminato il turno, ti affiancava nell’ora della pausa pranzo per svolgere un’importante operazione. Come credi che potrebbe essere accolta la notizia? Un medico scrupoloso come te cosa diventerebbe agli occhi degli altri? Chissà quanto sarebbe felice tua moglie di sapere la storiella del dottore e dell’infermiera, e credo che anche il direttore sarebbe orgoglioso di te. Che ne dici, facciamo l’affare? Tu ti occupi di mia madre come si deve e io mi sforzo di dimenticarmi di quel motel? Pensaci, ma non troppo. Il tempo che hai per decidere ha le proporzioni della taglia dei miei jeans: io – lo sai bene, non sono come mia madre, la mia taglia è un small.

*pubblicato nell’antologia ll fascino del racconto, edizione ALA libri (2022).

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